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Lorologio a rincorsa

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     Stamattina è stato davvero molto difficile aiutare il corriere, un tollerantissimo ragazzo sudamericano che conosce i curiosi costumi della meridionalità e mi osserva divertito a ogni consegna, nel trasportare, con un muletto, dal bilico all’uscio di casa uno dei containers (1,82x70m³) che ci sono inviati, con intervallo di tre mesi, dal meridione. Smantellato il tetto e calato il container in casa con una gru, la mia dolce metà (in altezza) ha smesso di rumoreggiare dieci minuti, distraendosi nell’aprire, con un trapano, l’involucro a strati sovrapposti di acciaio, ferro, cartone, carta di giornale, film estensibile, cellophane e domopak del container; estratti, in ordine cronologico, maglioni, tute, calze, scarpe, tielle imbottite di tiella alla salsiccia, colbacchi, matite, melanzane sott’olio, un agnello vivo, martelli, fresatrici, caciocavalli, altri sotto-container in miniatura zeppi di minuterie, Ambra ha trovato, con sua somma contentezza, un famigerato orologio a rincorsa (…). Sistemata, in un baleno, ogni cosa nei 22m² di casa nostra, e dopo un tentativo inutile di rincorrere l’agnello, fuggito immediatamente e resosi irreperibile, l’amore mio, con delicatezza estrema, ha iniziato a trapanare e batter di martello in cucina. Penso: «Che stia assemblando, lei, abilissima nei lavori di costruzione edile e di meccanica navale, un tornio o un nuovo frigorifero?»; corro, in cucina, col cuore a tambur battente, e non trovo niente di anomalo, aldilà di una salsiccia al finocchio – mi si scusi ogni eventuale fraintendimento razzista- di 15m, abbandonata sul tavolo, e di sei caciocavalli appesi alle travi di carta velina del soffitto. La dolcissima fanciulla che, fino all’altro ieri, mi accusava in disperate lacrime di volerla abbandonare a tutti i costi laddove dovessi, malauguratamente, defungere, mi ha salutato lesta ed è corsa in ufficio, lasciandomi a faticare davanti al Pc. Nel mezzo del lavoro uno strano ticchettio di dubbia origine – tic tic tic tic- mi distrae e mi infastidisce. Mi alzo e – come Geppetto- apro l’armadio: niente; apro i cassetti: niente; cerco sotto il letto: niente. Tic tic tic tic. Tendo un agguato alla doccia, come il giaguaro obeso del Parco delle Cornelle, aprendo di botto le antine in mogano plastificato: niente (mi imbatto, con somma diffidenza, in una novità che nulla c’entra ai fini del racconto, cioè in un doccia-shampoo-bidet al Ginepro della Corsica); controllo nel freezer: niente; ausculto con cura la caldaietta: niente. Tic tic tic tic. Che sia una bomba ad orologeria, mandatami dai redattori di Atelier? Mi accorgo di come il disturbo sinistro arrivi, senza ombra di dubbio, dalla cucina. Entro, alzo la testa e lo vedo, cementato al muro: l’orologio a rincorsa. Il famigerato orologio è dotato di un curiosissimo meccanismo a rincorsa: non appena la lancetta dei secondi arriva sullo 0, si butta in picchiata verso i 30 con un celerissimo ticchettio da 125 decibel, tipo aereo a decollo in cortile; non appena arriva sul 30, progressivamente, il ticchettio smarrisce frequenza, arranca, risalendo l’orologio a fatica, come trovatosi, con somma sorpresa, davanti alla fantozziana Cima del Diavolo, emettendo inquietanti mugolii e disperati grugniti. In cucina assisto ad un’alternanza rumorosissima di ticchettii e guaiti. Comprendo immediatamente la gravità della situazione: l’orologio a rincorsa è murato sopra il televisore L.I.S. (Linguaggio italiano dei segni) da cucina che, avendo una cassa rotta, assume la funzione di una tv da sordomuti (-9 decibel, tipo camera anecoica). Conscio dell’impossibilità di sentire il televisore, coperto, anche a massimo volume, dal ticchettio, e dell’inopportunità di acquistare un apparecchio acustico Amplifon, cerco di sradicare l’orologio dai cardini, col rischio di bucare i muri in cartongesso della cucina: niente; cerco di strappare la lancetta dei secondi: è di acciaio inox temperato in cristalli di boro, durezza >9.5 su scala Mohs; cerco di spaccare l’orologio a colpi di fiocina, facendo fuggire ogni foca nel raggio di dieci km: niente. L’unica soluzione sarebbe insonorizzare, coibentare, e mummificare l’intera cucina. Non trovo alternative e, triste, dopo aver cambiato, in cinquantasei minuti, un faretto fulminato murato sul soffitto in cartone dell’anticamera e sostenuto da un’incredibile varietà di fili, chiodi, viti, bandelle e molle, mi arrendo e ritorno a lavorare. Rientrata a casa dall’ufficio, con una piastra da 7 kg in fullerite biodegradabile acquistata all’Iper, Ambra mi dice radiosa: «Amò, hai visto che i miei ci hanno spedito un orologio?»; io rispondo con un sorriso freddo: «Ho visto». Stasera, entrata di sorpresa in cucina e scopertomi abbracciato alla televisione, la ragazza che ha sparso nozioni di meccanica industriale sui capannoni amorosi della mia vita, mi sorride con dolcezza, abituata alle mie condotte etnologicamente singolari: «Che fai?»; e io, sciogliendomi davanti al suo bellissimo sorriso, le rispondo con rassegnazione: «Niente, amore, mi sono solo affezionato tantissimo a questo maledetto televisore».       

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